top of page
pexels-дмитрий-зуев-8653137.jpg

Vento dell'Est

È il vento dell’Est.

Mi porta a rileggere “i russi”, dimentica – volutamente – di confini disegnati su carte geografiche da altri, a loro volta dimentichi – colpevolmente – del sentire dei popoli e incapaci di raggiungere un compromesso soddisfacente per tutti.

Potrei dissertare da storico, ma non ho la competenza specifica necessaria per approfondire oltre le conoscenze basilari di un buon testo universitario. Lo storico è un po’ come il medico: si specializza, e l’est non è il mio campo; ma la letteratura russa (in senso lato) ha intriso le mie pupille fin da ragazzina.

nido di nobili 001 (2).jpg

Ricordo l’emozione suscitata da questo romanzo ai tempi adolescenti in cui lo lessi per la prima volta e mi lasciai coinvolgere dal sentimento struggente e puro di Liza Kalìtina per Fjodor Lavrètskij; con tutta me stessa disapprovai la nobiltà d’animo della rinuncia e l’assenza di ribellione a quanto imposto dalle convenzioni.

Nella recente rilettura, tutto ciò mi è apparso di nuovo, ma come sospeso in una nuvola irreale, mentre hanno preso rilievo gli altri “abitanti del nido”: personaggi secondari ma determinanti nello svolgimento delle scarne e quotidiane vicende.

Quindi, Varvàra, moglie di Fjodor, tanto bella e sofisticata quanto scaltra e finta, capace di deridere con un complimento, irritante fino alla nausea; Lemm, insegnante di musica tedesco con cui Fjodor prova a instaurare un legame di amicizia, inutilmente perché «colui che è stato sfortunato, anche da lontano riconosce un altro sfortunato, ma quando è vecchio, difficilmente simpatizzerà con lui; e questo è logico perché con l'altro nulla potrà dividere, nemmeno la speranza». E ancora la vecchia zia Marfa Timofeevna, l’antico compagno di studi Michalèvich apparso sulla scena per discutere del tipico dilemma tra inerzia e attivismo.

Ho in sostanza apprezzato meglio l’affresco e, forse, il senso di quel «passare oltre» che come una lapide chiude il romanzo: mi è parso di cogliervi il fascino del non detto, del suggerito.

Turgenev 1 001 (2).jpg

Leggendo recensioni qui e là, ne ho trovata una (firmata con un nickname) che sancisce – non si comprende dall’alto di cosa – quanto questo romanzo non regga (sic) al passare del tempo; a sostegno dell’affermazione, si cita l’assenza di figure femminili determinate.

Mi chiedo come si possa leggere questo libro fuori dal contesto storico, ma non sono un critico letterario e le mie “note a margine” esulano da questo ambito.

A proposito di note a margine: rileggere è per me una splendida abitudine, fonte di nuove riflessioni e piacevoli sorprese. Ricordavo quanto mi fosse piaciuto questo romanzo e di averlo letto ai tempi del liceo, ma non ricordavo con precisione quando. È stato bellissimo trovare, annotate a matita, datate giugno 1972, alcune mie riflessioni sui figli, sui loro amori, sul loro impegno politico. Ed è stato bellissimo ritrovarmi, mutata su alcune opinioni, ma sempre la stessa nella sostanza delle convinzioni. La mia rilettura da “over 60” ha spostato l’attenzione sui padri non perché la genitorialità mi appartenga: non ho figli; ma per la tenerezza di cui Turgenev inonda i padri.

L’ho sentita correre lungo tutto il racconto fino al culmine delle pagine del capitolo XXI, quando i genitori di Bazarov accolgono il figlio nella loro casa, dopo lungo tempo e, inspiegabilmente per loro, lo vedono ripartire poco dopo, portato via dalla noia, dal disagio, dal tormento dell’età, dall’amore non corrisposto per una donna, da un atteggiamento sprezzante che pare non ferirli; tanto consente loro l’adorazione per il giovane. In ogni “padre”, anche quando non lo è come Pavel Petrovič, ho letto la saggezza, l’esperienza, la delicatezza del rispetto che spesso i “figli” dimenticano e Bazarov ritrova quando torna da loro, a casa. Amo queste pagine. Forse perché ricordo il mio “dilemma” di adolescente divisa tra l’amore per i miei genitori, con una spiccata preferenza, e il desiderio di stare con i miei coetanei. Non ho trovato note a margine in proposito: forse temevo di essere smascherata.

Trgenev 2 001 (2).jpg
il giocatore1 001 (2).jpg
il giocatore3 001 (2).jpg

Seguo l'ordine dei colori che colloca questi volumi sui miei scaffali e tocca al bianco di Dostoevskij; dopo le "Notti", "Il giocatore".

Nella rilettura di questo romanzo, a parte la straordinaria entrata in scena della baboulinka, la nonna data per moribonda e niente affatto disposta a lasciarsi sotterrare senza aver prima tentato la sorte (avrà per sempre il volto e la voce ineguagliabili di Lina Volonghi), il vizio del gioco, con tutte le relative sfaccettature, perversioni, debolezze, stoltezze, figure e figuranti, mi è parso secondario: sia rispetto alla psicologia dei personaggi e alle relazioni tra loro, sia e forse soprattutto rispetto alle argomentazioni sui russi fuori dalla Russia e sugli europei, singolarmente presi e nelle loro relazioni con i russi, o sull’Europa. Sarà per la guerra che ci accompagna, ma, conoscendo l’intreccio, più che dal resto, sono stata attirata dalle considerazioni sui popoli, sulla loro indole, sugli usi e costumi racchiusi nelle sembianze dei frequentatori di Roulettemburg prima e di Parigi poi.

L’Europa, l’occidente che parla francese o tedesco, che è sempre stato considerato faro di civiltà e progresso, e lo è per le élite russe mentre Dostoevskij scrive, appare invece un bell’insieme di ipocrisie che il giovane precettore Aleksej Ivànovic mette in rilievo e stuzzica, nelle conversazioni da salotto cui prende parte, allo stesso modo del prototipo del russo che vive ben al di sopra delle proprie possibilità e sperpera tutto nel gioco.

Mi ha fatto poi sorridere e pensare a recenti “invenzioni” sul parlare in corsivo questo frammento (cap. VI) che trascrivo:

«Ja wo-o-ohl!» gridai a un tratto a tutta forza, strascicando la ‘o’ come fanno i berlinesi i quali, a ogni momento, nel corso della conversazione, usano l’intercalare ‘ja wohl’ e strascicano più o meno la ‘o’ per esprimere varie sfumature di pensiero e di sensazioni.

Gogol copertina 001 (2).jpg
Gogol racconti 001 (2).jpg

Questi volumi, che acquistavo da ragazzina, mi hanno seguito in ogni trasloco, sempre ordinati in base all’accostamento di colore; dopo il bianco di Gorkj, il blu di Gogol’: «I racconti di Pietroburgo» e «L’ispettore generale», radunati dalla Fratelli Fabbri Editori: un paradigma, un capolavoro di arte della satira, di iconica rappresentazione del peggio umano prevaricatore, di critica sociale universale e immortale, che di certo gli esperti di letteratura russa sono in grado di analizzare molto meglio di una semplice lettrice come me. Ricordo le impressioni divertite della mia prima lettura, cui si sono sostituite, in questa più recente, notazioni diverse, volte a cogliere anche spunti di riflessione sulla visione della Russia di Gogol', mutata, così almeno sostiene qualche studio critico, dopo i suoi soggiorni romani. E Roma, nella comune accezione italiana il simbolo della burocrazia opprimente e della corruzione, è stata invece per Gogol’ il luogo in cui vivevano persone vitali, allegre, non corrotte dall’organizzazione sociale e politica, il contrario dei popoli vessati dalla politica, dal denaro, dalle gerarchie burocratiche.

Sulla prospettiva Nevskij circolano vanitosi che, mutati indumenti e vetrine, non sono tanto diversi da alcuni nostri contemporanei, così come cupidigia e bramosia di agiatezza rappresentate ne «Il ritratto» caratterizzano parti del nostro sociale.

Stranianti e divertentissime le «Memorie di un pazzo» per le quali mi piace riportare quanto dice, anche se non direttamente in merito, Paolo Nori sul proprio sito: «Ho appena scritto (in una cosa che sto scrivendo) che Gogol’, non che fosse matto, ma non aveva mica tutti i suoi a casa, come dicono a Parma. Spero si capisca».

In un libro recente sulle fontane romane si racconta che quella detta del Facchino senza naso è stata l’ispiratrice del racconto «Il naso», episodio inverosimile che però – per dirla con l’autore – «accad[e] al mondo; raramente ma accad[e]». E non sarà realistico, ma forse lo è per la cultura russa, il fantasma che ruba i cappotti ai passanti, tuttavia il lettore, in totalizzante empatia con Akakij Akakievič, non può che amarlo.

È ancora Paolo Nori a innescare una suggestione, a mio parere bellissima. Nella lettera di un condannato a morte della resistenza c’è un poscritto in cui Giuseppe Bianchetti, mezz'ora prima di essere fucilato, chiede al fratello di andare a prendere a Novara il suo paletot; l’autorità dell’ultimo desiderio - sostiene Nori - rende memorabile, come quello di Akakij Akakievič, anche il cappotto di un operaio trentaquattrenne di Montescheno. Paletot: termine famigliare, per me, al posto di cappotto.

lamadre1 001 (2).jpg
lamdre2 001 (3).jpg

Come figlia di mamma maestra, ho goduto di qualche "privilegio". Alcuni proprio li avrei evitati (ad esempio non scendere con la mia classe le scale, grandi - o almeno così mi sembravano - a fine mattinata per l'uscita da scuola, perché uscivo qualche istante prima del suono della campanella, alle 12:40, per raggiungere mia madre nella sezione maschile, dall'altra parte dell'edificio).

Uno invece lo adoravo: andare dal signor  Annibale.

Il detentore di cotanto nome proprio era alto, asciutto e molto gentile; lavorava come rappresentante della Fratelli Fabbri Editori, casa editrice dei cui libri di testo si serviva mia madre, in un punto vendita in via B. Marcello a Milano. Ogni visita era l'occasione per perdermi tra gli scaffali del piccolo magazzino e scegliere libri per me, con lui accanto che me li suggeriva. Entrambi ignoravamo le occhiatacce di mia madre perché esageravo con le quantità; solo ogni tanto Annibale la rassicurava sullo sconto alla cassa.

Per questo motivo, nella mia libreria ci sono loro, "I grandi della letteratura", rilegati come in foto e bellissimi, se non integri causa utilizzo.

Credo di ricordare di non aver finito di leggere all'epoca questo La Madre di Gorkij e di averlo ripreso ai tempi del liceo. Oggi mi è parso un po' faticoso in certi punti più che altro per il tono didascalico e il contenuto ideologico, che va in ogni caso letto storicamente; in altri invece mi è parso poetico e di sicuro magistrale nella rappresentazione e descrizione psicologica di Pelagéja Nìlovna, la madre appunto che diventa madre di ogni essere umano incontrato sul cammino della propria trasformazione, dell'emancipazione dall'analfabetismo fino al determinante ruolo di propagandista, attivista clandestina a rischio della vita; nella caratterizzazione dei tantissimi personaggi, che lottano contro miseria, ignoranza e tirannia; di Pavel - il figlio - e Andreij - l'ucraino che la chiama mammina, e di tutti i singoli "cospiratori" che appaiono e dispaiono dietro la porta di un'isba.

la figlia del capitano.jpg
Screenshot 2022-03-16 at 17-07-23 La figlia del capitano (1965) 1x6.png

«Non stormire, selva mia, madre verde». Suono di balalika, coro di voci maschili profonde e tristi, tempeste di neve e bufere di vento, calde isbe, dove samovar proteggono il tè, donne versano il vino; le steppe kirghise, percorse da cosacchi a cavallo, spazzate da venti gelidi, attraversate da slitte tintinnanti che racchiudono i passeggeri coperti di confortevoli pellicce. La sincerità, la fedeltà, l’onore, la parola data, il valore del giuramento; un gesto generoso che resta impresso e diventa debito per sempre. «Tieni da conto l’abito finché è nuovo e l’onore fin da giovane».

L’impudenza, la calunnia premeditata al servizio della malvagità vigliacca, la delazione. Nobili e servi, ussari e ribelli ricoperti di gradi improbabili, elargiti a iosa, leggi arbitrarie, vendette che rispondono agli istinti più brutali, vite alla mercè di irrazionali decisioni.

E poi l’amore: imprevedibile, prima protetto nella fortezza assediata da due genitori pronti a morire per la dignità e il giuramento prestato, poi maltrattato da chi ne pretende il possesso, infine custodito nella casa degli avi fino allo sciogliersi dell’intrico di eventi che lo contrasta. E lo scioglimento è guidato dal caso, o meglio e nel dettaglio, dal naso di un cane che fiuta e determina l’incontro risolutivo, insperato.

Questo – per limitarsi a riassumere – ho ritrovato tempo fa nelle pagine di Puškin ma mi era rimasto impresso nella mente ancor prima. Avevo nove anni nel 1965 quando la Rai mandava in onda questo teleromanzo (regia di Leonardo Cortese, riduzione sua e di Fulvio Palmieri, delegato alla produzione Andrea Camilleri, musica di Piero Piccioni) e riusciva a catapultare la mia immaginazione laggiù, nella steppa. Pugačëv ha per me la voce impostata di Amedeo Nazzari, il capitano Mironov le sembianze dell’attore strabiliante che fu Andrea Checchi, Vassilissa Egorivna quelle della magnifica Lilla Brignone. E Pëtr Andréevič Grinëv è ancora giovane, biondo e affascinante, come Umberto Orsini.

Maggiore pathos, dovuto alla recitazione, e Pëtr al comando del plotone di esecuzione alla decapitazione di Pugačëv come pegno preteso dalla zarina in cambio della scarcerazione, scostano la riduzione televisiva dal testo datato 1836. Intatto e rispettoso tutto il resto, l’atmosfera ricreata totalmente negli studi televisivi, un inno all’interpretazione. Indimenticabile.

bulgakov (2).jpg

Le mie pupille over 60 si sono focalizzate di nuovo e più intensamente su Šarik (nella traduzione italiana, “Pallino” rende davvero male indole e carattere di questo cane randagio) e ne hanno letto, compianto e pianto, vitalità e sofferenza e saggezza di vita di strada. In Filipp Filipovič Preobraženskij (letteralmente «colui che trasfigura») endocrinologo di fama mondiale, reso subito odioso dall’evidenza di un inganno che Šarik non coglie in tempo per sottrarvisi, hanno visto incarnata l’arroganza dell’uomo scienziato, che toglie e mette a proprio piacimento ipofisi e testicoli. Bulgakov lo ridicolizza anche solo con il canticchiare «verso del Nilo le sacre sponde» reiterato nei momenti più improbabili.

Per quel che mi riguarda, Šarik, con la sua superiore dignità, muore e resta morto al capitolo secondo. Il delitto si è compiuto. L’essere in cui si trasforma, il cittadino che assume il nome di Poligraf Poligrafovič Pallinov, simbolo degli emarginati di ogni società, rientra a pieno titolo nell’allegorica e satirica interpretazione di quella sovietica che costò a Bulgakov la censura. Mi dimentico del cane e, con maggiore lucidità, mi lascio coinvolgere da «aristocrazia della lingua, nobiltà semiologica e sublimazione del parlato» sottolineate dall’introduzione nell’edizione in mio possesso. I burocrati del ridicolizzato, più che ridicolo, Comitato degli Inquilini e la varia umanità di anziani pazienti ansiosi di ringiovanire, insieme con il dottor Bormental e le donne di casa Preobraženskij, danno corpo alla satira storico-politica e fanno pensare a tante deformazioni dei corpi, umani e animali, nostre contemporanee.

bottom of page