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Scrittori
contemporanei

Letto in anteprima

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Da storico contemporaneo ho sempre ammirato gli storici dei periodi più remoti; loro sono quelli bravi, diceva Giorgio Rumi, il mio maestro. Ed è vero, basti pensare alle fonti da reperire, consultare, valutare, confrontare: un lavoro immane, una storiografia sterminata, come sottolinea Franco Forte nella presentazione del volume; e una bibliografia, confesso, è stata la prima cosa che ho cercato, spinta dalla curiosità di sapere cosa avesse consultato. Deformazione professionale, la mia, forse poco pertinente al romanzo.

Il tuffo nella lettura, profonda 750 pagine, è partito da un trampolino alto un millennio: quello della distanza temporale delle mie competenze specifiche (a cavallo tra Otto e Novecento) dall'impero carolingio. In equilibrio prima del lancio, come in una sorta di rapido ripasso, ho chiamato a raccolta tutti i “muscoli” e, al culmine della concentrazione, ho spiccato il salto, pensando con Croce che la storia è sempre storia contemporanea.

È bastato il primo contatto della punta delle dita con la citazione di apertura per trovarmi subito a mio agio: «I sentimenti dell’uomo, le sue passioni e i suoi pregiudizi, hanno un loro cardine elementare. Non mutano con il mutare del tempo e della storia. E noi siamo, anche per tali cause, tutti contemporanei attraverso l’illusione dei secoli», Gianni Granzotto, dal suo Carlo Magno (pag. 62 nella mia edizione). Un libro del 1978, bellissimo e coinvolgente, in cui la Storia diventa narrazione nella penna di chi non è storico ma ne usa in gran parte gli strumenti, partendo dai luoghi fisici e geografici in cui un protagonista assoluto e determinante è vissuto e ha agito.

L’onda del ricordo di questa lettura mi ha trascinato come una corrente calda nelle pagine di Karolus ed è stata un’immersione totalizzante. La verifica della verità storica si è persa da qualche parte, non so dove; ho smesso di cercarla quasi subito, anche perché della Storia è bello cercare le tracce che lascia e che non lascia, ma è bello pure lasciarsi trasportare dal verosimile immaginato e drammatizzato, osservare l’affresco ed entrarvi, tanto da farne parte, perché curato e credibile.

Nel romanzo di Carlo Magno e nel personaggio protagonista ci sono aspetti virili che ho adorato: la delicatezza del padre con le figlie e, soprattutto, il suo amare lo scontro aperto e leale contrapposto alla delazione, alla menzogna, agli intrighi, spesso tramati al femminile; il detestare i codardi di cui brama l’annientamento; l’insofferenza per i compromessi, benché necessari; un temperamento da tenere spesso a freno e forse – unico appunto – qualche "ringhio" e "grugnito" di troppo, che ne rendono tuttavia l’indole. E ho amato, negli altri personaggi, il coraggio, la lealtà di Irmin e della Scora, il corpo dei migliori e fedelissimi guerrieri; la semplicità genuina, la schietta e piena salute morale dei Franchi, l’entusiasmo con cui provano a unire il mondo in nome della fede cristiana sì, ma con tutte le riserve, i dubbi, le valutazioni del caso e del momento, con determinazione e ferocia a volte, in funzione dell’avversario o interlocutore, fosse anche il Papa.

Ma sono coinvolgenti pure il destino di Imiltrude, la malia di Ermengarda, la prepotenza dura e arrivista di Fastrada, la determinata e astuta intelligenza materna di Bertrada, la complicità fraterna di Gisela. I punti in cui ho annotato “bello!” riguardano soprattutto loro. E per me, amante degli animali fanatica q.b., “bellissimo!” non poteva che essere annotato di fianco all’apparizione di Abul Abbas, l’elefante ricevuto in dono, e del maestoso cervo comparso nella foresta delle Ardenne.

Si cavalca, con Karolus, attraverso foreste e fiumi e valichi d’Europa, si incontrano i popoli che ne abitavano le terre e se ne conoscono tratti peculiari e antiche leggi, si partecipa alle battaglie, alla loro preparazione e alle azioni successive, si abitano i castelli e le regali dimore disseminati nel futuro impero, in cui le porte si chiudono al momento giusto nei momenti più intimi. Si assiste alla stesura dei Capitolari. Si vedono nascere le fonti, con la schiera dei sapienti all’opera nel palazzo di Aquisgrana, la Schola Palatina, l’Opus Caroli, Eginardo che segue Karolus e ne scriverà la biografia. Si cerca con loro la perduta sapienza romana in contrapposizione all’infido lusso di Bisanzio, che abbaglia con il proprio lucore sfarzoso per nascondere insidie e falsità.

Si riflette su aspetti sociali e culturali della mentalità medievale e si leggono i prodromi delle prossime lotte per le investiture. Un viaggio affascinante.

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Prediligo la prosa. La poesia mi piace, ma non è il mio genere preferito, nonostante invidi la sintesi e la pregnanza di cui i poeti sono maestri. Eppure, nel mio tempo scolare, da entrambi i lati della cattedra, ne ho lette, interpretate, scelte, proposte e provato a spiegare parecchie, previste o meno dai programmi ministeriali. Mi incanto a volte a leggerne qualcuna qui e là, pubblicate da amici esperti o a loro volta poeti.

È questo il caso di Gian Paolo Ragnoli che per me è Giambo. Ora, come me, si è schiarito i capelli, ma è l’unico aspetto diverso che ho notato in lui alla presentazione del suo ultimo libro di poesie: Il silenzio fra i tuoi passi. Poesie 2017 – 2022.

L’ho incontrato ogni estate, abbiamo amici e conoscenze in comune, ho coccolato sua figlia Marta che era minuscola ma solo ora scopro che è un poeta. A volte, la mia distrazione raggiunge vette imperdonabili. Leggo subito, dunque, con la matita in mano perché le note a margine non mi scappino di mente.

E trovo, tra l’altro, mutuando parole: la tenerezza malinconica, e un po’ sconcertata, dell’invecchiare di persone e cose e sentire, comune o personale che sia; l’invito a vivere questo tempo come una stagione nuova, sconosciuta e di incerta durata; la canzoni e note che evocano gruppi di chitarre e voci adolescenti scanzonate o consapevoli; rivoluzioni fallite o mancate; l’ironia complice e consapevole di essere vintage; la commedia dell’amore che fa rima con cuore; riflessioni sul tempo che si comprendono meglio da “over”; lo smarrimento di vedersi altro e di sentirsi un patetico ricordo; il disincanto di certe constatazioni. E poi visioni che acquietano, vino e drink che alleviano, silenzio liberatorio, bellezza a dispetto di ruggine e detriti.

Trovo poi, o prima, nella prefazione, tutti gli opportuni rimandi culturali, la ricostruzione dello studio necessario alla compiutezza e il giudizio conclusivo: «queste poesie sono molto belle». Concordo.

P.S.: mi è sembrata dissacrante l’ironia di «Un passaggio fondamentale». Sempre che la mia interpretazione sia corretta. [L'autore mi ha confermato che lo è].

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Il legame che si instaura tra chi scrive e chi legge, cui l’autrice dedica una nota a fine romanzo, è il motivo per cui questo titolo e la vicenda narrata mi hanno subito attirato. Sono nata nell’anno in cui la vicenda si compie, in quel 1956 noto per le rivelazioni di Kruscev, per l’invasione dell’Ungheria, di cui da piccola sentivo raccontare da papà, con grande apprensione per la paura vissuta, e l’anatema cattolico che il titolo sovverte mi ha fatto sorridere e incuriosito. Ho pensato: troverò una nuova lettura di un mondo e di un ambiente che – in tutta sincerità – nella mia famiglia non ha mai trovato apprezzamento, ma che era considerato preferibile a certa doppiezza democristiana. Me lo ha raccontato Elisabetta: dieci anni, sensibilità spiccata e intelligenza arguta, innata ma anche indotta dall’educazione e dall’istruzione ricevuta.

Questa attinge a piene mani dall’universo culturale “rosso”: le sue fiabe sono popolate di Baba-Jaga, i suoi sogni, persino i suoi incubi, sono popolati di figure simili a quelle dei cartelloni pubblicitari delle campagne elettorali; i suoi capelli sono rossi perché figlia di una comunista (le spiega la mamma, ma da chi avrà ereditato quel carattere somatico?) e perché sono l’idea/ideale portato in testa meglio dello stemma araldico del padre; il suo desiderio di sapere coglie e assorbe tutto quanto le ruota attorno. Si tratta dell’apparato di partito che si riunisce in ambienti fumosi, di cui impara a distinguere la puzza, si perde in discussioni estenuanti, si alimenta di pregiudizi maschilisti e convinzioni in via di sgretolamento. Si tratta dei “pezzi grossi” amici della mamma, che discutono e vivono, che per Elisabetta sono gli adulti di riferimento al pari delle “compagne di base” che, preoccupate della sua magrezza, la rimpinzano di cibo, e degli artisti (pittori, scultori, poeti, ognuno con le proprie ubbie) che cenano dai fratelli Menghi, locale diventato storico.

Gli amici di Elisabetta sono i ragazzini di Campo Parioli: Cesira, cui regala un abito, suo fratello Straccio che vuole fare il ladro e i comunisti «se li arrusca tutti quanti». Mentre la mamma, percepita come una comunista anomala cerca un lavoro “politico”, un ruolo, un uomo e una casa, Elisabetta segue, osserva, vuole capire, domanda e ascolta spiegazioni quasi crude oppure ne deduce di proprie, specie quando la mamma la deposita da qualcuno.

Arrivano l’inverno, il Natale e la festa della Befana a Botteghe Oscure ma Elisabetta desidera rivedere gli amici di Campo Parioli ed elabora un suo segreto piano quinquennale, degno di una ribelle. È l’inverno della nevicata del ’56.

Sono molti i livelli di lettura di questo romanzo, tutti coinvolgenti e frutto di un lavoro di ricerca minuziosa che non appare ma sostiene tutto.

Non è un romanzo storico, ma ci si legge la Storia, anzi, ci si immerge nella Storia.

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«Oh Madòna, me Signùr!»: è una locuzione dialettale di stupore e insieme accorata partecipazione alle vicende, anche altrui, tipica della sponda lecchese del lago di Como sulle cui rive è fuggito un pediatra in pensione, dializzato, con i sintomi imprevedibili e inquietanti della demenza senile. All’agitazione per la scomparsa dell’anziano dal carattere terribile e al sollievo di moglie, badante e affezionata caposala per il suo ritrovamento, si aggiunge immediata la curiosità di capire per quale motivo sia finito proprio lì. A questo punto, si dovrebbe raccontare la trama, ma si rovinerebbe il piacere della lettura e tutta la gradevolezza di uno stile sornione, sempre sul filo dell’ironia ma pronto a indurre riflessioni sui temi affrontati.

Forse con un’immagine riesco a rendere l’effetto che ha avuto su di me l’inoltrarmi nelle pieghe della vicenda, leggendo una pagina dopo l’altra, d'un fiato, fino alla conclusione, con il dubbio costante di aver intravisto la soluzione corretta dell’enigma.

Nel buio fitto di una notte senza luna, il lago rimanda le sue acque sulle rive; lo sciabordio lieve lascia i ricordi e i suggerimenti sulla risacca. Bisogna saperli cogliere, però. E mentre gli occhi mettono a fuoco le ombre, mentre le pupille si adattano come quelle dei gatti, si intravedono i profili di alcune case che si illuminano e tornano buie e si accendono di nuovo; una alla volta e in ordine sparso, come i ricordi, si avvicinano dal passato e si lasciano guardare dentro. Mostrano gli uomini, le donne, i giovani che hanno vissuto la Seconda guerra mondiale. E a loro fanno raccontare storie che sono Storia.

Il presente giunge come la luce del giorno e porta il suo chiarore (e il disincanto) su temi contemporanei. E poi i luoghi e il loro spirito: il carattere delle persone così strettamente connesso all’ambiente.

Che bel libro! Mi ha coinvolto tanto quanto l’altro che ho letto tempo addietro –  È solo un cane (dicono) – in un momento per me tremendo di sofferenza, e che è stato per molti aspetti propedeutico. Una breve nota si trova qui, scorrendo in basso.

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Ho trovato faticoso seguire il flusso di coscienza di Ginevrablù, adolescente tormentata, con una personalità divisa, un’anima bucata come la maglietta in cui infila ossessivamente le dita, ossessionata da piccole manie, da problemi di relazione purtroppo diffusi.

Sono arrivata in fondo grazie al «chilometro cinquantacinque», lo stesso del ringraziamento conclusivo dell’autrice che mi ha restituito interi – credo – senso e sostanza del suo lavoro.

«Blu è performance» avverte Alice Cappagli nella quarta di copertina. Concordo, tuttavia non ho provato il medesimo coinvolgimento testimoniato in quasi tutte le recensioni che ho letto.

I momenti che ho preferito sono quelli in cui si ricreano ambientazione, atmosfera, relazioni scolastiche. Di certo è un libro che induce a riflettere, di sicuro squinterna le tecniche di narrazione ed è per questo istruttivo, ma onestamente non lo rileggerei.

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Quando la pioggia scende copiosa, si temono ormai disastri che il giorno seguente tutti definiranno annunciati. Sono sempre più frequenti, con le loro tragiche conseguenze, ma non sono nuovi, purtroppo. Ne Il tempo che faceva di Aldo Boraschi, l'ufficio anagrafe di Senzaunnome, simbolico paese della costa ligure, era rimasto sepolto sotto una frana.

Nel giro di qualche anno gli edifici erano stati ricostruiti ma per ricostruire l’identità del luogo con avvenimenti di rilievo e quotidiane vicende, i documenti erano ormai perduti. Restavano i ricordi degli abitanti, in particolare di Gelinda Rustichetti che li ha scritti nei suoi diari iniziando ogni pagina con una nota sul tempo che faceva quel giorno e chiudendo con il titolo del libro che avrebbe letto quella sera.

Anziana, ricoverata nella casa di riposo Bell’Età, Gelinda sa che solo raccontando e tramandando si può conservare intatta e arricchita la propria identità, il cui sapore è quello dei cibi semplici e distintivi dei luoghi: le trenette la pesto, il Vermentino, un caffè e il gelato al fiordilatte come solo lei sapeva mantecare e tuffare nel cioccolato (il Pinguino è un goloso oggetto del desiderio anche del luogo in cui ho la fortuna di abitare).

Il bar e il gelato, con il mondo che racchiudono, sono quanto Gelinda decide di lasciare in eredità a Beata Nocentini, fanciulla segnata dalla vita e additata dai compaesani. Quasi madre e figlia, si incontrano nonostante il divario generazionale per un motivo che è causa e fine al tempo stesso e avrà un peso rilevante nella vicenda di Senzaunnome. Ruotano attorno al loro rapporto privilegiato personaggi caratterizzati dai soprannomi tipici dei borghi.

La gradevolissima scrittura di Aldo Boraschi descrive raccontando, analizza con sintetica e ficcante ironia tratti psicologici di alcuni, ricrea clima e atmosfera di questi meravigliosi microcosmi che ho iniziato ad apprezzare da piccola e riesco a vivere in pienezza da “grande”. Forse per questo, tra i temi affrontati dal romanzo, il racconto della vecchiaia mi è parso il più poetico.

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Ma quante parole inutili utilizzo di norma per esprimermi? E quanto spesso risulto verbosa, ripetitiva, inutile? Troppe e troppo spesso, mi rendo conto dopo l’incursione nella prosa di Erri De Luca che torna a indicare la strada, a indurre la ponderazione, con una bellissima lezione di economia delle parole. Mi ha trascinato nella sua «narrativa dei nodi»: quelli che si aggrovigliano, o si sciolgono, o si tranciano, nella archetipica vicenda del rapporto genitori e figli. Mi ha lasciato lì, avvolta nel gomitolo che ha generato, ferma a riflettere, con il dito infilato tra le pagine per non perdere il segno e rileggere, mi ha catturata con la bellezza della frase, o del periodo, asciutto e intenso, delle parole usate con il contagocce. Le riflessioni, sugli etimi, sui casi e le loro declinazioni, sui segni e significati dei lemmi nelle lingue e nei dialetti, disseminate con sapienza, mi hanno costretto a una lettura lenta e meditata, e portato dai racconti biblici alle vicende dirimenti del 1900 legate ai crimini nazisti, con l’aiuto di riferimenti colti, ricordi, storie e Storia.

Affascinano queste vite raccontate nei loro momenti nodali appunto, e il nodo del legame con il padre mi ha attirato come una calamita; l’interesse è cresciuto ad ogni riga perché mi coinvolge scoprire (forse) il punto di vista dell’autore, specie partendo da quello di lettore al femminile che ha dato peso al proprio padre, non ha attraversato nel contrasto il «deserto dell’adolescenza», non ha vissuto con il padre un conflitto, non l’ha indotto a lacerarsi una camicia dal dolore; un lettore, dunque, che rientra nella «direzione conforme» presa dai germogli umani, ma che non ha a sua volta prolungamenti.

Se Il torto del soldato mi ha catapultato in una dimensione lacerante difficile da condividere, Una cronaca – che si fa Storia mentre racconta di un uomo che incarna la paternità – mi ha riportato a sfogliare cartelle d’archivio, in cui il primo documento che si incontra è l’ultimo testimone della vicenda. E Un’espressione artistica mi ha lasciato a riflettere, di fronte alla metafora del buco lasciato dall’ombrellone nella sabbia: quegli anni della contestazione - il buco rimasto a riempirsi di sabbia -  sono stati miei, anche se non contestavo.

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«Te devi salvare il mondo, Zapata.

Io? E come si fa?

Che domande. Come si è sempre fatto. Si scrive un romanzo».

Un romanzo che cattura come un lazo lanciato da un abile cowboy, ti prende e alla fine ti lascia, con nostalgia, qualcosa di bello. La voce narrante coinvolge e trasporta nel curioso e picaresco mondo di Vittorio Vezzosi, scrittore che non ha più pubblicato nulla dopo il successo planetario del suo primo romanzo e si è ritirato in un eremo sulle colline di Firenze. Emiliano De Vito, neolaureato in lettere antiche summa con laude, è il suo nuovo assistente: preciso, lindo – di un biancore bambinesco non voluto – e letterato, intraprende con il Maestro un vero e proprio cursus honorum. La vicenda si snoda sul confronto tra generazioni contrapposte e in apparenza lontane, ma che trovano un comune denominatore. Dialoghi e “flussi di coscienza” tengono gli occhi incollati alla pagina, mentre la nostalgia avvolge il lettore. Attorno alla costruzione e allo svelarsi dei due personaggi alla scoperta delle reciproche affinità, ruota un mondo, che uno evita e a suo modo combatte, e l’altro subisce; un mondo popolato di personaggi che sono figuri: un docente universitario, un editore, un presentatore, un venditore di vecchie cose, obsolete ma ricche dell’animo, dei sogni e delle fantasie di chi le ha possedute e ha vissuto il periodo in cui sono nate, cianfrusaglie per qualcuno, reliquie per altri. Nel novero dei figuri, c’è anche il mago dei social, che nel tempo di pochi click riesce a “far sapere al mondo” notizie e informazioni quasi ignote ai diretti interessati, che si domandano: «ma perché il mondo non si fa i cazzi suoi?» Un mondo di «gente imbecille» che mette “like” ma «è tutta roba che non conta nulla e non vale nulla». Però: «il Vezzosi dirà cose importantissime, anche più di Celentano»; cresce così l’attesa necessaria alla nuova, impensata e imprevista, esplosione di popolarità dello scrittore. E popolarità non è il termine giusto, ma davvero, non posso usare quello corretto per non svelare non solo la trama, meravigliosamente fuori dalle regole omologanti, ma la magia.

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Maddalena, Maddi, sente improvviso e nitido il desiderio di tornare a Roma, dove è vissuta, dove non ha più nessuno.  Ma perché vuole tornarci? Come un sacchetto di coriandoli lanciati nell’aria, appaiono i ricordi; danzano lenti, mentre la voce narrante che li ricompone cerca di rispondere alla domanda. Persone, luoghi, situazioni e vicende, non allineati sulla linea del tempo, danno corpo alla storia di una famiglia, dispersa in molti altrove. Maddi e Nina, sorelle diverse fino all’antitesi fisica e caratteriale, costruiscono la loro esistenza sul sostegno reciproco, indispesnabili l'una all'altra nonostante le contrapposizioni, raggiungono una intesa telepatica, diventano «addizione di una uguale mancanza» per resistere al dramma della sparizione di Gloria, la loro mamma. Dopo una settimana di angoscia in cui perdono la fiducia negli adulti, la semplice verità disarmante in parte le rassicura: Gloria non è morta, chiamerà, «ogni cosa di nuovo sarà vera», ma ritroveranno il ritmo regolare del vivere quotidiano, fonte di felicità e pienezza solo grazie a Mylene, una tutrice-governante cui sono affidate dopo la separazione dei genitori. Mentre Nina, giovane giaguaro impulsivo e aggressivo, irrompe in qualsiasi momento sulla scena con il preciso intento di rubarla, Maddi si rifugia in sé stessa, come nel carapace della tartaruga, suo animale preferito, in cui trova la cara pace agognata, in cui trascorre «ore senza nessuno, da preservare intatte». Il padre, il nuovo amore della madre, il marito di Maddi, gli amori di Nina: gli uomini insomma - e ne manca uno, determinante - paiono restare sullo sfondo, ma sono indispensabili componenti nella costruzione della storia che prende forma come la costruzione della persona e della personalità.

Maddi tornerà a Roma, in quel posto, in quel bar, in quella strada, in quel parco dove la disciplina dell’allenamento ha tanto contato per la sua sopravvivenza. E proprio lì…

La storia finisce ma non si chiude: come risvegliata dall’ipnosi, leggendo mi sono trovata di fronte a un comportamento imprevedibile tenuto in una situazione improbabile, per quanto banale e possibile. Un finale aperto, incognito, un accelerare in contrasto, in tutta sincerità deludente rispetto alle tensioni che il racconto aveva saputo creare. Forse però è proprio così che capita.

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Un preside è preda di sè stesso: giovani illusioni perdute vanno in fumo sulla Prenestina con i quadri rossi, tutti rossi, dell’amico di sempre, Eugenio, che va a caccia per camminare tra i boschi e spara al vecchio cinghiale con la bocca (boom) poi con una carezza lo incoraggia a nascondersi; l’amore elettrico e giovane di Carola, nato sulla soglia dell’Università, si spegne nella vana ricerca di un figlio: lei lo lascia dopo vent’anni, con un biglietto sgrammaticato lasciato sul tavolo; la professoressa Micheli combatte la noia con il sesso, perciò si avvinghia al ripetente Giorgio Giovanardi perché ha gli occhi belli, è giovane, caldo e distrugge a calci il totem della ricreazione: la macchinetta delle merende e dell’acqua. Giorgio trova in questo gesto la sintonia con il preside che lo tiene prigioniero. Sono barricati in un istituto, assediati dalle forze dell’ordine, la cui voce si incarna in quella del commissario, immaginato grasso e calvo, in realtà alto e magro, mentre si sente, fuori, la baraonda della comunicazione. L'anonimo preside prova a fuggire per anditi segreti. Voleva diventare uno scrittore, ma si è rassegnato alla sconfitta, cioè all’insegnamento; è diventato preside grazie ad un atto disonesto, per cui sono arrivati gli ispettori ministeriali, stupiti dal suo operato stravagante, che persino gli studenti non comprendono, tranne poche irrilevanti eccezioni. Il preside è giunto allo stremo: rifiuta l’offerta ministeriale di una via d’uscita defilata; affoga nell’alcool la disperazione di sentirsi un toro con uno sperma inutile e si trasforma in minotauro per difendere «lo spazio ridotto della propria vita interiore». La cultura è davvero «il cortile ombroso dei disperati»? Un romanzo breve che si legge d’un fiato, parole dense, una visione metafisica della scuola che si materializza come sgorgando da una sorgente nel flusso di coscienza di un uomo che prova ad opporsi, a cambiare, a cercare il senso dell’esistenza e della sua precarietà.

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Non credo lo avrei “scoperto” se non fosse stato per una segnalazione di "romanzo che indaga il rapporto tra madre e figlio". È un tema per me più accattivante della montagna (di cui l’autore è noto esperto), alla quale preferisco il mare, figlia solo per questo aspetto “degenere” di padre innamorato delle cime e dell’aria fresca e pulita che tira lassù. In realtà ho trovato molto altro: la personalità di una donna singolare, che può restare ugualmente sconosciuta, ma incanta e attira alla scoperta impossibile del suo mistero. Alle sue parole, che il figlio bambino e poi adulto rievoca, è affidato il compito di delineare una sorta di affresco storico della famiglia borghese negli anni Trenta; e di ripercorrere gli impervi sentieri delle imprese della Resistenza, fino alla Ricostruzione. Ancora, di far respirare il clima denso di fumo di Brera e del Bar Jamaica a Milano. E l’aria tersa della montagna, il vento. I racconti di Rosamaria a Marco Albino, la trasmissione così intensa e sincera, persino cruda ma veritiera, di insegnamenti e valori potranno forse far sobbalzare qualche pedagogista/pedagogo, ma credo dovrebbero essere guida a molti genitori.

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Ricordo quando Professione Report andava in onda se non sbaglio la domenica. A casa seguivamo attenti l’inchiesta, ci guardavamo in faccia più o meno stupiti, coinvolti dalla rivelazione o dall’approfondimento. La delusione arrivava il lunedì mattina: tutto come prima. Perché nulla cambiava? Eppure, ci sarebbe stato da far la rivoluzione!

E non è cambiato niente, o quasi. Ci vorrebbe ancora una rivoluzione, anche in senso etimologico. Non servono forconi, basta una forchetta, ma bisogna saperla usare. Dobbiamo! È un imperativo morale, un dovere civile, un dovere verso noi stessi, per la salute, nostra e degli animali e delle colture e dell’ambiente che sono nostro patrimonio.

Sistema e politica, "principe azzurro e principessa", si lanciano spensierati nelle danze, interessati solo a tenere il tempo, il loro. Ci calpestano in ogni modo, ci avvelenano, ci irridono; ci danno dei matti. E noi? Obesi e malati. Anche zitti, muti e proni?

Non si possono sintetizzare qui più di vent’anni di inchieste, le più recenti in Indovina chi viene a cena: bisogna leggere. Bisogna sapere, per non farsi truffare dall’apparenza del marchio, per non lasciarsi turlupinare dalle formule etichettate. Bisogna supportare chi si arma di cinepresa, di parole mirate, di argomentazioni sostenute da elementi probanti, chi racconta e spiega come e perché sottrarci alla seduzione della trinità zucchero-grasso-sale; a che anno si fermano i dati ufficiali dell’ISS sul consumo dei grassi saturi  (2005-2006: che coincidenza: gli stessi anni delle recenti inchieste sui piani anti-pandemia); qual è il profumo della fregatura sull’etichetta; cos’è il Lepeophteirus salmonis che divora i salmoni negli allevamenti, a sua volta combattuto con il lompo (lo stesso delle uova di lompo?).

Ricordo che succhiavo le bustine del caramello usato per il creme caramel che mi preparavano da bambina… e ricordo che qualche anno fa a un certo punto la salsa di pomodoro mi procurava bruciore di stomaco, nonostante la marca blasonata. Certo, se usano l’etilene – cancerogeno – per ottenere una maturazione uniforme dei pomodori, sono fortunata se mi fermo al bruciore.

Sul pomodoro ogni riga di questo libro provoca un sobbalzo, come quando documenta sulle galline, le uova, il riso, il miele. E le api? Spiate per replicarle, perché dopo averle distrutte saranno sostituite da robot. E così gli “scienziati” incollano dei ripetitori «sulle loro piccole teste e sulle nostre coscienze».

Bisogna impiegare tempo e pazienza per scovare chi lavora con scrupolo, produce puntando all’ottimo. C’è ancora, esiste e combatte. Una volta trovato va però sorretto: saranno prodotti più costosi? Sì, ma li introduciamo nel nostro corpo. Importerà qualcosa! Diranno che siamo ortoressici: fissati, ossessionati dal mangiare sano. Ma dai: voler evitare di farsi avvelenare, voler essere sani è un’ossessione?

Profilo etico e passione civile innervano queste pagine, forse più ancora delle immagini sullo schermo; mi spiego con un esempio: ricordo le api con il ripetitore in testa ma all'immagine raccontata con i tempi della tv si è sovrapposta la frase che me l'ha ricordata. Ora è davvero indelebile.​

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Queste parole sono per chi non frequenta Twitter e quindi potrebbe non conoscere Johannes Bückler che usa un punto di incontro virtuale come occasione per ricreare atmosfere da tempi lontani, quando le persone nutrivano il loro sapere anche di racconti. La persona celata dallo pseudonimo, nei pochi caratteri utilizzabili in ogni messaggio di quelli disponibili, riesce a trasportare il lettore nella vita del “chi” oggetto del racconto, informa, sensibilizza mente e cuore. Le differenze si annullano: tutti siamo storicizzabili, anche Inaffondabile, un gatto, nero. «I suoi thread danno dipendenza» dice Tonia Mastrobuoni; ha ragione, è verissimo, è così. Se nella tua pagina Twitter non appare, lo cerchi, verifichi cosa è uscito, cosa ti è sfuggito e leggi, anzi inghiotti oppure assorbi come se stessi bevendo con una cannuccia, gusti ogni piccolo sorso. Ma con Johannes Bückler non esistono piccoli sorsi. Pensi – almeno a me è capitato e capita – a quanto lavoro di ricerca sottendono, a quanta empatia suscitano. E speri di leggere ancora, anche su carta. Intatti mi aspetta «Non esistono piccole donne». La pubblicazione cartacea ha scopo benefico.

So che si schermirà, ma ancora grazie, Johannes.

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È stato il mio primo Hornby. L’avevo iniziato interrompendo Pirandello, I vecchi e i giovani, ripreso in mano dopo un’eternità. Che salto!

Superata l’iniziale diffidenza per l’ignoto, la storia mi aveva coinvolto. L’atmosfera anglo-americana è percepibile quel tanto che basta anche a chi non la conosce direttamente, i personaggi sono realistici, l’ironia è lieve e si ride con intelligenza, ma si riflette sul grottesco dell’esistenza contemporanea. Duncan è un prototipo, Annie tenerissima, Tucker simpatico. Avranno un senso, che non ritengo determinante, le ultime pagine aggiunte a vicenda conclusa.

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Fatale e inevitabile amare il re dei camosci, fino alle lacrime. Si può leggere tutto d’un fiato, e cogliere solo il senso della fine, per entrambi prestabilita, oppure assaporare lentamente la scrittura densa e leggera, avvertire l’inconsapevole supremazia morale degli animali. Il duello finale non è tale perché il re dei camosci stabilisce tutte le regole.

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Fresco, più leggero del vento che tira ad alzare il Magra, ma impetuoso come il fiume, è un libro che corre veloce sull'incalzare della piena.

Leggendo si ha quasi l'impressione di essere portati via dalle parole, dal racconto che intreccia la vita di tre donne e delle loro generazioni, dei loro segreti alla fine svelati, come se l'acqua inondando la casa e la vita delle tre donne li avesse portati a galla. E quando se ne va, quando l'acqua del fiume torna al suo posto, lascia tutto lì: una barca rotta, una cucciola di cinghiale, un vestito rosso e uno bianco da sposa.

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