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Note su note

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Era la metà degli anni ’80 quando ho frequentato un paio di corsi definiti di psicodinamica, una sorta di training autogeno basato sull’immaginazione, senza una base scientifica terapeutica ma con sottofondo musicale; insomma, avevo abboccato all’amo... Ad uno di questi corsi, aperto a un gruppo ristretto di persone, ha partecipato un certo Franz. Cordiale ma riservato, capelli lunghi, barba e la simpatica caratteristica di non riuscire mai a riferire alla classe e al “docente” lo svolgersi dell’esercizio assegnato perché, diceva, si era lasciato portar via dalla musica. Nonostante Impressioni di settembre fosse, e sia ancora, uno dei brani che adoro da quando è uscito, non avevo riconosciuto il batterista della PFM: Franz Di Cioccio. E mi rimprovero ancora oggi di non aver approfittato dell’occasione per scambiare più di quelle due chiacchiere tra “compagni di classe”; d’altronde, quando mi ero resa conto di chi fosse, mi era parso scortese, come quando chiedi le diagnosi all’amico, tu che sei medico; e poi, di fronte a certi “miti”, fatichi a pensarli come persone che hanno sbarcato il lunario prima del successo e che studiano e lavorano per mantenerlo.

Per fortuna però ci sono i libri, come questo di Mauro Pagani, che riportano alla realtà, raccontando. E scopri quale sia l’origine del nome della Premiata Forneria Marconi; ricordi ruolo e atmosfera della Galleria del Corso a Milano (ritrovo di vecchi capi orchestra) e rivivi la tensione costante che ha camminato per anni con te tra la Statale e San Babila; leggi il risvolto privato di molti; ripercorri decenni vissuti eppure in parte dimenticati.

Proprio il meccanismo della memoria persa e recuperata è la ragione del libro e sollecita la medesima operazione nel lettore, se non coetaneo, almeno coevo a quel mondo, musicale e no.

Avere poi il web a portata di click, consente di ascoltare le note di cui l’autore parla, colonne sonore di una lettura a velocità di crociera e di una vita intensa, ricca di incontri del destino, capitati per lo più per caso, e lanciata verso il successo in giro per il mondo, fino alla Royal Albert Hall.

Poi, considerazioni, opportunità, desiderio di sperimentare, un complesso rapporto con il Fuggiasco interiore, intervengono a modificare la rotta e portano all’incontro con Fabrizio de Andrè. E si scopre come e perché possiamo ascoltare Creuza de mä.

P.S. I figli di Bubba presentati da Miguel Bosè a Sanremo me li ero dimenticati, ma che carini!

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La copertina è in bianco e nero.

Il libro è double-face, con autore e titolo su fronte e su retro, che si distingue per il codice a barre.

Ma Papes, l’autore, è Enrico Maria o Sergio?

Me ne ricordo uno molto bene: «Conclude, Enrico Maria Papes».

Sono due? E non lo sapevo?

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Sono tradizionalista: apro il libro dal fronte e si svela subito l’arcano (in realtà è un Papes solo) che tale era per me e forse pochi altri. Inizio la lettura, in cerca di conferma ai miei ricordi nella biografia del gruppo ma trovo subito segnali che mi spingono a capovolgere il libro e partire dal retro, capovolgendo anche le mie abitudini (di solito, leggo prima introduzioni e prefazioni). Dopo un paio di pagine, è chiaro che le affinità mi attirano verso la parte più personale. Tuttavia, provo a resistere, a seguire l’iniziale intento per cui ho acquistato il volume, ma non ci riesco, voglio conoscere Sergio, il Papes che non conoscevo: capovolgo e leggo la vicenda umana che si sovrappone precisa a una strofa imparata a memoria come tutte le altre delle loro canzoni: «Credo nell’amor / in ciò che sente il nostro cuor / so di non sbagliar /se dico che l’amicizia lo può dar / l’arte è nel cuor / e la famiglia è calor / poi una donna c’è / per completare questo nostro amor». Mi ritrasmette il senso compiuto di solida tranquillità che la sua voce profonda mi aveva, allora inconsapevolmente, comunicato; quasi un perno per tutte le altre.

Riconosco le zone della sua infanzia, a Milano, tra la Stazione Centrale e piazza Greco, dove ho vissuto da adulta; sono passata innumerevoli volte lungo il viale delle Rimembranze su cui lui saliva e scendeva in bicicletta, rischiando il capitombolo. Ero piccola invece per frequentare i locali in cui negli anni ’60 cresceva la cultura musicale e teatrale che avrebbe nutrito la mia adolescenza, perciò, tranne alcuni di cui non sapevo nulla, ritrovo tutto: luoghi nomi concetti criteri contesti. Milano è anche la mia città: ci sono nata, ci ho studiato e lavorato, l’ho vissuta nei momenti peggiori eppure coinvolgenti. Comprendo – in senso etimologico – quello che Papes descrive e poi il senso di estraneità, a un certo punto della vita privata e della vicenda pubblica.

La sintonia risuona immediata alla foto «Con Scimmia, 1972»: è evidente tra lui, accucciato alla sua altezza, e un botolo di cucciola aggrappata con le zampe al suo braccio, il bene reciproco stampato sulle facce. Comprendo anche il desiderio di anonimato, un vivere defilato, mettendosi alla prova e imparando a fare altro in sintonia con la natura e senza orpelli. Leggo del suo ammirevole impegno con i bambini, dei suoi viaggi interessanti; lo scopro vegetariano ben prima di tanti, di sicuro di me. Poi eccoli: i cani e le assonanze. Il cucciolo cui si deve rinunciare da piccoli («Ci manca solo il cane»), poi la mascotte, e quello che ti aspetta per andarsene, fino a colui che con la sua saggezza sa rendersi ragione di vita e ti «salva». Solo la dolcezza di un’altra anima animale può consolare.

Comprendo di nuovo. Mi fermo a pensare a miei cani, e al mio gatto.

Proseguo e rigiro il volume, tornando al gruppo, alla musica, ai dischi.

Cosa trovo? Un’altra “immagine” che suona note familiari e mi cattura: due ragazzi che si incontrano alla fermata dell’autobus, in viale Romagna; in Città Studi sono nata e vissuta fino all’adolescenza. È lì che Enrico Maria e Giacomo si incontrano. Lì nascono i Giganti. Lo so, sembra inesistente, ma io vedo il senso, il motivo, la ragione per cui erano il mio gruppo preferito. Non era solo gusto musicale. E non era neppure così insensato, per il mio carattere, che tra i quattro fosse proprio Mino a piacermi di più: fascino dell’artista ombroso e tormentato; voce soffiata, screziata di disillusione in Tema e Proposta, il graffio della delusione e dello sconforto in Io e il Presidente, occhiali scuri ad accrescere il mistero. Ricordo che le mie coetanee impazzivano per Sergio, con lo sguardo accattivante sotto il ciuffo; trovavo la sua voce caldissima e mi piaceva il contrasto in Una ragazza in due con quella di Checco, che recitava la parte dello sciupafemmine simpatico, divertente. Che voci, ragazzi!

Ero troppo piccola per partecipare al raduno del Beat al Palalido a Milano, ma in quell’estate 1966 in cui spopolava Tema iniziavano le estati nel mio bellissimo angolo di mondo, dove è capitato che li abbia incontrati: all’esterno del locale in cui avevano suonato la sera prima, si aggiravano in costume da bagno ai bordi della piscina annessa allo stabilimento. Mi mancava l’intraprendenza per avvicinarli e li ho osservati da rispettosa distanza. Giocavano (o tentavano di gestire, da quanto si legge) una scimmietta che portavano con loro anche sul palco; ne deduco – dato che non ricordo di preciso – che fosse l’anno di Io voglio essere una scimmia.

Nelle pagine curate da Brunetto Salvarani e Odoardo Semellini, percorro le tappe di un successo breve ma denso; alla vicenda del “mio” gruppo, aggiungo notizie e informazioni sul mondo musicale che mi ha circondato, facendosi sentire dalla radio, dai dischi, dai juke-box, dai periodici per giovani allora in voga. Ne esce un mosaico di tessere infinite. Mentre scrivo ho nelle cuffie le loro voci armoniose, salvate nel web anche dei dischi che non possiedo; presto ai testi un’attenzione ovviamente diversa («Abominevole ma libero!») e li trovo ancora belli, originali, attuali e soprattutto riconoscibili. Leggo della vicenda di Terra in bocca che non conoscevo in modo così dettagliato, ne recupero pezzi dal vivo anch’essi salvati dalla rete, leggo del premio Borsellino ricevuto nel 2011. Sembra assurdo che raccontare una storia di mafia accaduta nel 1936 potesse subire censura.

Nel 1971, come oggi. O no?

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Prima di scrivere le note – nel senso non musicale del termine – ispirate da questo libro, devo confessare con l’onestà che l’autore richiama nell’«intro», la mia ignoranza in tema di musica, a parte nozioni elementari e gusto personale di ascoltatore. Però, il bello di questo libro sta anche nel fatto che si legge, si ascolta, si assorbe a prescindere dalle competenze personali perché coinvolge, racconta, sollecita, spiega, suggerisce, trasporta e lascia affiorare il mondo dei ricordi, quel «personale altrove indotto dalla musica», unico ma al tempo stesso comune a tutti. Almeno questo è capitato a me. E ho “visto” vicende che dovrò scrivere, imparando a trovare il tempo, senza lasciarlo passare o ingannarlo.

Senti il tempo… c’è alle mie spalle, sopra un ripiano della libreria, il vecchio metronomo di mio nonno; e l’ho ascoltato mentre seguivo il flusso della disquisizione sul tempo come condizione della musica, la riflessione sulla manualità da cui passa il legame con lo strumento, sull’uso della voce per far risuonare, anche nell’anima, le note di chi suona e di chi ascolta, fino alla fusione con il respiro di legni corde ottoni tasti. Ascolta la melodia… l’ascoltatore vive nel «tempo dell’ingenua arrendevolezza», può lasciarsi pervadere dalla musica fino alla danza, sua «simmetrica sorella». Improvvisa… era la parte degli stage di danza che ho amato di più: «musicaparoladanza», fusione in cui la parola torna fonema, è suono e movimento, ma anche senso e significato, muto in apparenza perché privo del castello logico, diversamente espresso.

Sono molteplici, e tutte suggestive, le similitudini, associazioni di idee, immagini usate dall’autore per rendere con le parole comprensibile, chiara e avvincente la sua trattazione musical-letterario-filosofica che risulta consona: con-suona e rende il jazz un’avventura nella quale scoprire la magia dell’unisono o la sensazione della perfezione o il lavorio dell’immaginazione colta nel suo processo creativo, nel suo «frenetico operare», diverso dal suo «operato riveduto, rifinito e corretto mille volte».

Nel jazz c’è il rischio, c’è lo spazio per l’errore, esempio concreto dell’imprevisto, pericoloso amante corteggiato. C’è l’immanenza.

E poi c’è il critico, un convitato di pietra della con-fusione; c'è il pubblico, «minaccia esogena per ogni artista» che è tale e grande se in grado di elaborare un pensiero tanto rapido da anticipare gli eventi; c’è la vita del musicista, la sua esistenza, le amicizie, le relazioni, il quotidiano, argini al tracimare della musica.

Il jazz dunque cos’è? Improvvisazione («come camminare sulla neve») che toglie l’intervallo e rende l’uomo «percettivamente panarmonico», suoni che cadono sempre in punti inesatti; una musica spietata che mina le certezze. È la precarietà, l’istante che passa tra il tic e il tac, è (definizione bellissima) «l’eterno gerundio del tempo».

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