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Note a margine

nuove note a vecchi libri

Classici, letti e riletti, intramontabili e fonte di ispirazione.

Autori, anche contemporanei, per me significativi.

​Se da storica gran parte del mio tempo era assorbito dalla lettura della bibliografia sull'argomento di cui mi stavo occupando, da quando ho ripreso a scrivere mi dedico con maggior agio alla lettura di romanzi, pur senza abbandonare il mio interesse per la storia che per me resta imprescindibile, da conoscere per inserire personaggi e situazioni in un contesto verosimile ma anche per stravolgerlo.

Quelle che seguono invece sono "recensioni", per uno scrittore, e soprattutto per un aspirante tale come me, un ottimo esercizio oltre che un mezzo per mostrare quale mondo letterario lo circonda e lo nutre.

Ho inserito il termine tra virgolette perché le considero piuttosto brevi note, impressioni tradotte in parole per condividere le mie letture, spesso in ordine sparso, ispirato da un momento, un ricordo, il desiderio di rileggere qualcosa di caro e noto, oppure mirate a qualcosa di inerente il tema della prossima scrittura, prima del suo svelamento.

In cima allo scaffale resta il mio preferito: Piccolo mondo antico.

Gli spazi bianchi attendono nuove note su vecchi libri.

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I miei preferiti

Come si può notare dalla copertina dell’edizione datata 1964, ormai quasi distrutta, è un libro che mi accompagna da tempo e che ho letto più volte. Gli sono legata per vari motivi; è stato amore a prima lettura e lo considero un piccolo capolavoro. C’è tutto: la Storia del nostro Risorgimento e le segrete trame per liberarsi dall’oppressione austriaca, la caratterizzazione in tutti i dettagli più significativi di abitudini, luoghi e personaggi «minori» della Valsolda e del Lombardo Veneto, le relazioni famigliari con il contrasto tra l’animo buono e onesto dell’ingegner Piero Ribera e la maligna disonestà bacchettona della marchesa Orsola Maironi, che riesce a intridere della sua stessa antipatia persino il cagnetto da cui non si separa, povero Friend. C’è un segreto, un testamento trafugato, sul quale esplode il conflitto tra due anime e due modi diversi di sentire e vivere, due ideali di verità e giustizia, umana e divina, che fatalmente stridono. L’amore tra Franco Maironi e Luisa Rigey è ostacolato dalla nonna marchesa che si oppone al matrimonio, poi si frappone fino a provocare il licenziamento dello zio Piero presso cui vivono gli sposi; è un amore intenso, ma tormentato dal diverso porsi di fronte alla vita e alla morte, che li colpisce nel modo più doloroso. I dissapori non riescono a ricomporsi, come lo scontro tra ragione e fede, tipico del flusso culturale del modernismo nel quale furono coinvolti Fogazzaro con la messa all'Indice di alcune sue opere e il suo amico e biografo Tommaso Gallarati Scotti. Prima della partenza per la guerra del 1859, sotto l'ultimo paterno sguardo del loro benefattore, Franco e Luisa si ritrovano.

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il prediletto

Nota a margine

Copertina

Un librino solo nelle dimensioni, questa «calibrata selezione [di scritti] che nel loro insieme si configurano come un vero e proprio trattato sull’unica religione cui la Ortese sia stata caparbiamente fedele: la religione della fraternità con la natura». Così Anna Borghesi, che l’ha curata, la presenta nell’edizione Adelphi 2016.

Sono pagine dense; poetiche quando racconta dei suoi animali, interessanti quando argomenta e discute, specie se si rapportano all’epoca in cui sono state scritte: dal 1940 al 1997, decenni in cui – accanto alla guerra, alla ricostruzione, al boom economico, all’avvento del benessere, ai sacrifici e sudore e fatiche di tanti – si percorreva inesorabilmente, «sotto la stella dell’utile», una china devastante verso la perdita di coscienza morale, non ignota all’uomo ma «supremamente impopolare». China lastricata di antropocentrismo, di ricchezze che allontanano dalla «felice civiltà», di sordità alle voci della natura e ai bisogni degli esseri più poveri e deboli, di indifferenza, di azione volta solo al proprio interesse nel totale disinteresse verso le Piccole Persone.

Lo scrive maiuscolo: gli Animali sono Piccole Persone, fratelli diversi, con una faccia, occhi che esprimono un pensiero, con una sensibilità, chiusa perché non si esprime con il raziocinio della parola e dell’orgoglio di sé, capaci di provare dolore fisico. Dalla loro sofferenza, provocata dalla mano umana, inizia l’inumano, la degradazione della terra.

È un male atroce quello perpetrato nei loro confronti, ovunque (dagli allevamenti alle pubbliche vie) e in molti modi, tutti giustificati dalla convinzione che gli animali non abbiano un’anima, tutti protetti dalla certezza della impunità, sminuiti a «scherzo» tollerabile se commesso da un ragazzino che (ad esempio) svuota un nido delle uova, le schiaccia, lo riempie di escrementi umani e si diverte ad osservare le reazioni dell’uccello-madre. Resta lo sconcerto della constatazione: non c’è alcuna comprensione dell’altro, non c’è mansuetudine, solo la demente vanità con cui l’uomo distrugge o usa le altre creature convinto di possederne il diritto in base a una sancita qualità.

Ma quale?

«E morire, oppure semplicemente lasciar cadere la penna senza averne mai parlato, sarà vergogna suprema per uno scrittore».

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E morire, oppure semplicemente lasciar cadere la penna senza averne mai parlato, sarà vergogna suprema per uno scrittore.

Il Diario è un concentrato di Storia e letteratura che desidero ricordare nell’anniversario della Resistenza, perché anche quella degli IMI (Internati Militari Italiani) lo fu: l’altra Resistenza, per dirla con Alessandro Natta.

«Eravamo insieme» diceva mio padre di Guareschi, e di altri, tra cui Giuseppe Lazzati e Gianrico Tedeschi.

Stessi campi, Deblin Sandbostel Wietzendorf, fino alla liberazione arrivata con gli inglesi.

Stesso destino da «comuni mortali di complemento».

Stessa scelta: il rifiuto di aderire alla RSI e di lavorare per i tedeschi. Tranne pochissime eccezioni, tutti dicono – e ribadiscono ad ogni richiesta: no, compreso il «tentenniere», che in un angosciante alternarsi di sì e no stenta a ricordare la sua ultima presa di posizione.

Gli IMI provano a non morire: disegnano schizzi e piante, riordinano la casa, ipotizzano caminetti in soggiorno: «questa è nostalgia, è bisogno di attorcere più saldamente a un appiglio l’altro capo del filo che ti lega alla vita»; oppure si buttano nella mischia di conferenze e discussioni, «necessità di iniettare nell’aria limacciosa del Lager l’ossigeno che permetteva il sopravvivere dello spirito» perché – diceva come è noto Guareschi con la testardaggine della bassa emiliana – «non muoio neanche se mi ammazzano». Perciò scrisse opere appositamente per il lager, approvate dall’assemblea dei suoi compagni, come le note lettere al postero, indirizzate a suo figlio e lette di baracca in baracca, come articoli del giornale parlato La campana. Ma non è il solo: «Il tenente Gianrico Tedeschi tiene una lettura di poeti moderni: Quasimodo, Montale, Ungaretti, Saba, Scipione, Cardarelli, Dora Martius, Rebora. Quest’ultimo presente al raduno totalmente: cioè anima e corpo […] parlano con voce cordiale: versi si appiccicano [all’] animo come carta bagnata su un cristallo, e le parole sono trasparenti, umane, e ripetono l’eterno miracolo della poesia perché sono straordinariamente attuali». Alla regia università di Sandbostel, i prigionieri si radunano in gruppetti di facoltà dietro le baracche e in alcuni momenti l’iniziativa delle conferenze diventa frenesia oratoria, tutti vogliono parlare «probabilmente per rifarsi di aver supinamente taciuto o pavidamente bisbigliato per venti anni filati».

Tuttavia, sono importanti questi corsi tenuti in prigionia, perché serviranno a non rimanere prigionieri di nuovo, del primo che li aspetterà alla stazione o del secondo o del terzo. Alleneranno le coscienze a vagliare ogni parola loro, a individuare le falsità di ognuno, a scoprire la verità.

Altri invece parlano solo di cibo e pensano solo al cibo, preda della fame e della pazzia, mentre «l’achiquestiere» distribuisce equamente i pochi viveri giunti integri con i pacchi da casa e ogni minutissima cosa che assume senso per chi non ha più nulla. Altri ancora sono preda della noia e dell’inerzia in giornate invece cruciali per il mondo intero, di cui sanno grazie a Radio Caterina, costruita smontata e ricostruita al bisogno con pezzi di fortuna.

Per questi uomini senza diritti, «sognare è la necessità più urgente […] per non dimenticare di essere vivi». E il primo Natale nel 1943 il pensiero supera i reticolati insieme con il modulo lettera che raggiunge i propri cari, sperando di trovarli sani e felici, seduti alla tavola apparecchiata con la tovaglia bianca, affollata come una piazza ad accogliere radunate le mani della famiglia, per sentirsi meno disperati, mentre gli affetti e i ricordi entrano ed escono, sotto il naso di Gott, il dio tedesco misterioso e grottesco che li guarda dalla torretta, ma non li può vedere né tanto meno fermare.

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Là, in quella sabbia e in quella malinconia, ognuno si spogliò dei suoi panni e della sua crosta e rimase nudo.

E si mostrò quello che veramente era

Accanto ai nuovi acquisti, emergenti come a volte i loro autori, mi capita di osservare nella mia libreria vecchi libri ancora intonsi – troppi – o da rileggere. È come se mi dicessero: «Ti ho aspettato finora; altro tempo in più che vuoi che sia, per me. Non so per te». Talvolta, non ho ben chiaro quale impulso mi spinga verso certi di loro, che si mostrano un po’ più visibili degli altri.

I racconti di Kafka erano là da parecchio: edizione 1968! Acquisto di papà, non mio che all’epoca amavo altro. A lettura terminata, ho cercato interpretazioni critiche per rispolverare la memoria di studi liceali ormai lontani e fermatisi molto prima nell’arco storico della letteratura. Secondo alcuni, i personaggi dei racconti potrebbero essere momenti incarnati della malattia (tbc) dell’autore: un dolore alla schiena trasforma Gregor Samsa nello scarafaggio della Metamorfosi. Per altri Un vecchio foglio racconta l’archetipico terrore nei confronti dell’estraneo, nomadi ladri e invasori osservati da dietro le finestre del palazzo dall’imperatore che lascia ad artigiani e commercianti l’impari compito di salvare la patria. Sono immediate le analogie con le atroci torture de La colonia penale datato 1919 o con le pennellate sulla belle époque parigina: le «gran dame con gli occhi tinti» affacciate sui loro terrazzi mentre il lembo dell’abito («straccio») è ancora sulla sabbia del giardino; l’informazione, «questa informazione palesemente menzognera»; i dialoghi da babele con un mendicante o un ubriaco o un bambino, uscito da un oscurissimo corridoio, che parla di fantasmi con il tono indisponente di un adulto; il malsicuro passeggero sulla piattaforma del tramvai; i concorrenti invidiosi di una corsa a cavallo, «gente astuta e per lo più influente». Di sicuro mi hanno convinto le riflessioni trovate su corridoiolaterale.com (blog in apparente disuso, peccato) che sottolineano come la rivoluzionaria incompiutezza dell’immagine dei racconti di Kafka sappia scardinare tutte le strutture, foriere di inquadramento e omogeneizzazione. Ancora oggi. Per rispondere alla domanda iniziale, ad attirarmi è stata forse la mia totale estraneità al contrasto con l’autorità paterna de Il giudizio (altrove La condanna), ma il ruolo potrebbe avere altre sembianze.

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Incompiutezza rivoluzionaria

Tornereste a scuola? Io sì. Il liceo è un luogo e un momento della vita che ricordo con tenerezza e rivivrei anche subito, con maggiore consapevolezza e attenzione per qualche aspetto allora trascurato. E questo libro di Arturo Cattaneo riesce a ricreare la stessa l’atmosfera del mio liceo negli anni in cui l'ho frequentato. Ritrovo «il vero figo [che] non cagava mai [...] secondo l'accezione carducciana del termine [...] e cioè "prestare attenzione"», le moto sulle quali vigeva da parte dei miei genitori il divieto assoluto di salire, le mode distintive che condensavano l’appartenenza in un indumento. Rivivo momenti cruciali dolorosi, di scontro e talvolta violenza, che mi sono rimasti impressi, che ho sempre combattuto. In un certo senso mi rivela un punto di vista, all’epoca non considerato, sull’amore e sulle ragazze, quello dei maschi che custodivano il segreto desiderio di incontrarne una: «una, bella e fedele» come doveva essere la traduzione secondo il professore cui è dedicato il libro. Tra il ’68 e la prima metà degli anni ’70 la scuola iniziava in tutta la nazione il primo di ottobre, ma a settembre c’erano gli esami di riparazione e il mercatino dei libri di testo usati, che al liceo classico Giosuè Carducci di Milano era un’occasione di incontro prima dell’inizio delle lezioni per studenti, ripetenti e spaesati neo-quartini in cerca del loro posto, ancora ignari della lettera che avrebbe segnato il loro destino, quella del corso in cui erano stati inseriti con i professori che li avrebbero formati. Sono maschili l’occhio e la voce che osservano e raccontano inquietudini e pulsioni di giovani studenti del corso E, forse allora non del tutto consapevoli dello spessore di chi era in cattedra, ma di sicuro affascinati dalla personalità di alcuni di loro. Accanto alla vita scolastica che la mattina anima aule, corridoi, scale gremiti durante l’intervallo, si svolge quella pomeridiana: studiosa nelle case, di compagni e compagne, scapestrata e avventurosa al bar della fermata del metrò a Piazzale Loreto, lungo il corso Buenos Ajres, nei cinema allora numerosi in tutta la città. Il Pacini con le sedie di legno, l’Argentina, il Diana con i velluti rossi e gli atri di marmo, il Puccini con gli ultimi numeri di avanspettacolo, catapultano in una realtà alternativa, trasgressiva e onirica i carducciani catturati dalla goliardia, spaventati dall’amore vero ma «inguaribili romantici» convinti che il mondo esistesse «come volontà e illusione». Sono affettuose e riconoscenti le pagine dedicate ai professori, stimati maestri di vita, Giandebiagi e Moretti, uno minuscolo e l’altro enorme che arrivando un giorno da due corridoi, reciprocamente nascosti l’uno all’altro da un angolo, rimbalzano uno sull’altro creando una situazione comica di fronte alla quale significativamente nessuno ride. Nella scrittura leggera ma coltissima si infilano tutti i dettagli, i suggerimenti, i ricordi, le riflessioni sul microcosmo di un liceo all’interno di una città a suo modo magica. Chi lo ha vissuto lo riconoscerà all’istante; per gli altri sarà una bellissima scoperta.

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I Sette Savi

del liceo

Carducci a Milano

Amori sospesi: dieci racconti fitti, il punto di vista maschile sull’amore e sull’eros, dalla prima volta in cui il bambino subisce l’abbandono della madre all’ultima in cui l’adulto riesce ad abbandonarsi all’estasi, quando forse l’amore non c’è.

Vita quotidiana, riflessioni più o meno profonde a seconda del protagonista, momenti che appartengono all’esistenza di ognuno: l’innamoramento all’uscita da scuola, il ricordo intatto di lei che si disfa di fronte alla volgare trasformazione operata dal tempo, la magia dell’intesa fisica che supera l’incomprensione reciproca di lingue diverse, il lungo matrimonio pieno di bene sì, ma tanto noioso; e ancora la sofferenza di doversi svegliare ogni giorno, e quella di invecchiare tornando bambino e perdendo la cognizione di sè. E anche il lavoro talvolta alienante, un aggettivo da catene di montaggio ma potrebbe essere appropriato anche per un professore di greco che, certo, almeno nel declamare i classici prova piacere.

E infine lo stridente confronto tra vecchiaia e gioventù, misteriosamente attratte da un comune sentire, vicine quasi fino a toccarsi ma impossibilitate a compenetrarsi, nonostante il desiderio. Personaggi tutti magici, ma Trippoli e il Vecchione mi sono rimasti nel cuore. Un libro struggente e magistrale.

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L'amore maschile secondo Asor Rosa

Nato dal riordino delle carte di Carlo Levi, Le ragioni dei topi raccoglie scritti e disegni ispirati al mondo degli animali, parte coerente della sua lettura del mondo. Introduzione di Franco Cassano e postfazione di Guido Sacerdoti ne ricostruiscono le ascendenze culturali, analizzano nel dettaglio il pensiero, la poetica, le riflessioni sulle trasformazioni di paesaggio e uomini iniziate nel secondo dopoguerra, e sulla contemporaneità o compresenza dei tempi. A fine volume, biografia di Carlo Levi e il Bestiario leviano; frammenti di citazioni, di qualsiasi genere, tratte dai testi dell’autore, che riguardino animali; ordinate in ordine alfabetico secondo la lettera dell’animale, da quello araldico alle zanzare.

È un testo che ho letto in occasione della ricerca propedeutica alla stesura del mio primo romanzo. Nella rilettura recente (abitudine per me frequente, inevitabile quando il libro “mi richiama”) ho trovato una sintonia speciale in alcune descrizioni di luoghi liguri, di momenti estivi, di natura e di animali. Mi respinge, invece, al di là di ogni considerazione “letteraria”, l’istinto di caccia che pervade alcuni racconti e, se mi ritrovo nel tepore del sole di ottobre, nell’armonia di un golfo ligure, nella fuga in mezzo al mare su una barca spinti da un motore, rabbrividisco, tuttavia, al lancio dell’arpione di Mino che caccia i delfini, tenta l’inseguimento ai capodogli, cattura una tartaruga. La sento camminare «con l’arido rumore delle scaglie sul legno» sul fondo della barca e non provo il piacere descritto, «che viene dal fondo dei tempi».

Mi riconcilio con Levi quando incontro gli altri animali: il gufo Graziadio, la cornacchia Orune, le vitelline appena nate, gli «occhi carichi di sapienza» di una scimmia, gli innumerevoli cinguettii che risuonano ne «L’alba sul giardino» mentre celebrano la cerimonia del risveglio del bosco, i topi che popolano la casa dell’autore e, quando trovano il territorio disseminato di esche velenose, decidono di andarsene senza toccarne neppure una per sbaglio.

L’altezza di queste pagine è nelle tante riflessioni che apre e sollecita sul ruolo degli animali nel mondo: depositari di quanto l’uomo, nel suo progredire – effettivo o presunto – ha dimenticato o, peggio, distrutto ma che potrebbe recuperare se li considerasse suoi pari.

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Gli animali sono un tramite prezioso

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